di Paolo Russo (da La Stampa del 4/8/2020)
Sono stati gli eroi di marzo, caduti per aver affrontato a mani nude il virus. Ma per molti esperti e i loro colleghi specialisti sono anche i grandi assenti della guerra al Covid, scollegati dalla rete ospedaliera e barricati nei loro studi a consultare al telefono i propri assistiti. È l’esercito dei 45mila medici di famiglia, sulla carta prima linea della sanità pubblica, ma, come dimostra la nostra indagine, con orari di visita a formato ridotto e una formazione che alcuni giudicano non all’altezza.
Partiamo dagli orari. La convenzione che regola il rapporto di lavoro dei medici di medicina generale fissa un orario minimo di 5 ore settimanali per chi non supera i 500 pazienti, 10 ore per chi è tra 500 e mille, 15 ore tra i mille e i 1.500. Siamo andati a vedere come stiano effettivamente le cose esaminando un campione rappresentativo di 200 studi di otto grandi città. Ebbene, l’orario medio di apertura è di appena 14 ore settimanali, nonostante ciascun medico abbia mediamente in carico circa 1.300 assistiti. E il problema è che diversi di loro hanno anche due studi, ubicati in quartieri diversi. Per cui il pertugio da sfruttare per ottenere una visita per molti si fa ancora più stretto. Occorre dire che poi qualche ora in più i nostri dottori la lavorano, perché una volta che si è entrati in sala di attesa entro l’orario comunque la visita è dovuta. Poi ci sono quelle a domicilio. Che però, come esperienza di molti assistiti insegna, sono eventi rari. «È comunque un orario molto più ridotto rispetto a quello degli ospedalieri, che fanno anche le notti e devono garantire la reperibilità», precisa Marco Geddes, già vice presidente del Consiglio superiore di sanità e tante pubblicazioni sul nostro sistema sanitario alle spalle. «All’estero, contrariamente che da noi spiega lavorano in équipe e fanno tutta una serie di accertamenti di primo livello, come elettrocardiogrammi ed ecografìe, ed è grazie a questo filtro della medicina del territorio che in Germania il Covid ha mietuto molte meno vittime».
Se l’orario è mignon, la retribuzione è però maxi, perché con 1.500 assistiti si arriva a 7.895 euro lordi mensili. Cifra dalla quale bisogna detrarre le spese per lo studio e la segretaria. Riguardo la possibilità di poter eseguire accertamenti a studio l’ultima Finanziaria ha stanziato 235 milioni per l’acquisto delle apparecchiature diagnostiche. Ma la palla è passata alle regioni e così non se ne è fatto ancora nulla. Anche se il ministro Speranza sta per emettere un’ordinanza che assegnerà alla Protezione civile il compito di fare gli acquisti. Un modo per non relegare i medici di famiglia al ruolo marginale di trascrittori delle ricette degli specialisti. Ai quali spesso gli assistiti si affidano sapendo che la loro formazione è più alta.
«Questo perché i medici di medicina generale nel resto del mondo si formano nelle università e fanno ricerca, mentre da noi dopo la laurea tutto si risolve con un corso triennale gestito dalle regioni e dallo stesso sindacato di categoria, la Fimmg», spiega il professor Gavino Maciocco, una cattedra di igiene e sanità pubblica all’Università di Firenze e un passato da medico di famiglia.
Per risolvere il problema degli orari di apertura minimi che finiscono per ingolfare i pronto-soccorso, garantire senza troppe attese accertamenti basilari e poter contare sul consulto degli specialisti, in mezza Italia (soprattutto al centronord) sono nate la “Case della salute”. Un flop secondo l’indagine del Crea Tor Vergata di Roma. Solo il 40% apre nei festivi e gli accertamenti diagnostici sono eseguiti in meno della metà dei casi. Si dice che i soldi dei Recovery fund destinati alla sanità serviranno soprattutto a rafforzare la medicina del territorio. Allora bisognerà investirne un bel po’. E poi spenderli meglio di come non si sia fatto fino ad ora.