Sanità e campagna elettorale: silenzi e bugie

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La sanità è la grande assente di questa frettolosa campagna elettorale. Neppure le ricorrenti notizie di stampa sui Pronto Soccorso, ridotti a trincee piene di pazienti e vuote di medici, e sulla “pandemia sommersa” delle liste di attesa, spingono i partiti ad accendere un riflettore sul tema.


Che l’argomento non li interessi più di tanto, nella corsa contro il tempo per attrarre consensi, lo si capisce anche andando a guardare i singoli programmi. La sanità è certo trattata, ma senza un’ottica di sistema, a volte come pretesto di polemica sulla gestione delle ondate pandemiche, quelle passate non certo quelle future, a volte per azzardare facili promesse. Tanto il consenso non si gioca certo sul finanziamento del Ssn, che qualche candidato vorrebbe addirittura ridurre!

Le acque non si sono mosse nemmeno di fronte alle cronache che raccontano dell’apertura del mercato estero per i medici extracomunitari, cubani, albanesi, ucraini o argentini. Unico segno di attenzione al tema il ritornello dei Presidenti delle Regioni e, sulla loro scia, di qualche leader politico, sulla necessità di abolire il numero chiuso a Medicina, accusato della drammatica carenza attuale di medici. Un caso di scuola di falsa coscienza che tende a individuare il colpevole lontano da sé stessi e dal proprio partito politico, continuando a confondere i laureati in medicina con i medici specialisti. Gli unici che possono lavorare negli ospedali.


I cultori del mantra, evidentemente, nulla sanno dell’imbuto formativo creato, in anni non lontani, dal divario tra numero di laureati in medicina e numero di posti per la formazione specialistica, con il risultato che oggi è sotto gli occhi di tutti. Eppure, negli stessi anni, già occupavano posti di rilievo nella gerarchia del potere politico. Ma lo scarico delle responsabilità è una vera e propria arte italiana. Alla luce dei dati (OCSE, 2018), l’Italia ha un numero di medici inferiore alla Germania, e alla Grecia, ma superiore a Francia, Olanda, Belgio, UK. La qualità di un servizio sanitario, però, non dipende esclusivamente dal numero dei medici. Come in qualsiasi organizzazione, anche in sanità è difficile ottenere buoni risultati se il personale è mal-trattato. I medici dipendenti italiani stanno pagando i tagli, strutturali ed economici, che governi di tutti i colori hanno apportato alla sanità pubblica, con l’aggravante della pandemia.

Esclusi da qualsiasi aspetto decisionale e organizzativo, stretti nella morsa della burocrazia, vittime impotenti della costante emorragia di colleghi che non vengono sostituiti, rendendo insopportabile l’aumento dei carichi di lavoro, con retribuzioni e carriere bloccate e i pazienti-clienti sul piede di guerra, come dimostra il lievitare delle aggressioni verbali, fisiche e legali. E un contratto di lavoro scomparso dal radar, scaduto da quasi due anni e nemmeno applicato. 1.100 colleghi ogni anno scelgono di andare via da questo Paese, altri 2000 mollano il sistema pubblico prima della quiescenza. Nessuno, però, si chiede il perché di questo vero e proprio esodo. E della scarsa appetibilità di quella che una volta era una professione ambita ed oggi una sofferenza da evitare.

Caso emblematico la scuola di specializzazione in Medicina di Emergenza e Urgenza. Lo scorso anno si sono immatricolati 509 medici su 1260 posti disponibili (40,39%). Ad oggi, 445 sono rimasti iscritti e 64 hanno abbandonato, come stanno tentando di fare altri 70. Un tasso di fuga del 26% e un tasso di copertura dei posti ritenuti necessari per l’anno 2021 pari al 29,76%.


Colpa del numero chiuso? Dopo il Dlgs Calabria, voluto dal Ministro Grillo contro universitari e partiti collaterali, nulla è stato fatto per aumentare il numero dei medici specialisti, soprattutto in alcune discipline. Nemmeno in via straordinaria, come la situazione richiederebbe. Oggi si colpevolizza il numero chiuso, che tanto chiuso non è più se questo anno le iscrizioni sono state circa 15000, senza contare le università private e quelle straniere. E, nello stesso tempo, by passando il “Calabria”, si apre prima alle cooperative, da tempo stabilmente insediate, ed oggi al mercato estero, grazie a un decreto nato per la emergenza pandemica e piegato ai desiderata delle Regioni ad onta delle evidenti criticità organizzative e del rischio di abbassare la qualità delle prestazioni erogate. Tutto pur di non affrontare il nodo del rapporto SSN-Università che ancora considera i medici in formazione specialistica quali studenti e proprietà privata.


Ci troviamo, quindi, di fronte ad una narrazione falsa. La carenza di medici specialisti nulla ha a che fare con il numero chiuso a Medicina. E la crisi della sanità pubblica non nasce solo da tale carenza, ma dall’organizzazione del lavoro dei medici, ridotti a fattore produttivo in un contesto, quello delle sanità regionali, che si ritiene non vincolato al rispetto di leggi e contratti. Senza contare una carenza programmata di risorse economiche. Tutto il resto è chiacchiera elettorale. In un Servizio Sanitario non più nazionale ma di fatto regionale, non più pubblico ma in stato di avanzata privatizzazione, si sta mettendo in pratica la formula di Noam Chomsky: definanziare, creare malcontento e aspettare che gli stessi cittadini chiedano di cambiare. Una strada certo possibile per la sanità italiana che, però, non è lecito imboccare surrettiziamente, attraverso la distruzione silenziosa del servizio pubblico.


Se le forze politiche non sono capaci di fare altro, o semplicemente non vogliono, procedano pure in questo senso, ma lo dicano ai cittadini cui oggi chiedono il voto. Se non ora, quando?

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