di Marco Geddes e Antonio Floridia, da Il Manifesto del 25 marzo 2020
«Oro, fuoco e forca!», fu la risposta che Giovanni Filippo Ingrassia diede, nel 1575, a chi gli chiedeva quale fosse stata la sua strategia contro l’epidemia di peste che si diffuse in quell’anno a Palermo e che egli riuscì a «contenere» con buoni risultati.
Nato a Regalbuto (il paese di Leonardo Sciascia) nel 1510, riuscì a studiare e laurearsi in medicina a Padova, o forse a Bologna; medico personale di molti regnanti, sull’onda della fama conseguita il vicerè Pedro de Toledo gli assegnò nel 1544 la cattedra di Anatomia e Medicina teorica a Napoli. Rientrato a Palermo nel 1563, fu nominato da Filippo II «protomedico» di Sicilia, e poi capo di una
Deputazione generale di salute pubblica che affrontò lo scoppio di quella pestilenza. Il senso di quella formula è evidente e possiamo tradurla in termini «moderni»: risorse economiche, risanamento sanitario, stringenti normative che obblighino all’osservanza delle regole.
Sono ricette a cui possiamo appellarci ancor oggi, di fronte alla frattura epocale che sta provocando il Coronavirus? Sulle prime (l’oro), non ci sono molte parole da spendere: la pandemia cui stiamo assistendo attoniti richiede e richiederà una radicale riconversione delle logiche economiche del mondo contemporaneo. Quanto al «fuoco», appare evidente come non si tratti solo di approntare risposte cliniche e farmacologiche, ma di combattere seriamente quel gravissimo deterioramento ambientale, alle origini dei devastanti effetti di questo virus, e forse della sua stessa genesi.
NATURALMENTE, il grande tema dell’oggi, è quello della «forca», che non pochi tendono a invocare come «estremo rimedio» all’indisciplina sociale; e che, per altro verso, molti temono come l’esito autoritario di un governo dello stato di eccezione. Anche qui conviene dare uno sguardo al passato.
L’epidemia di peste di Marsiglia, nel 1720, fu circoscritta in quell’area, ma schierando il 40% dell’esercito francese in un assedio crudele; l’ultima epidemia sul suolo italiano, a Noja (Bari) nel 1815-16, fu «curata» con un assedio e con la fucilazione di alcuni poveretti che non avevano rispettato le norme. La cittadina ne uscì ferita e profondamente mutata. Cambiò perfino nome: oggi è Noicàttaro.
ANCHE LA PESTE manzoniana (1630) fu affrontata in modi diversi. A Milano le norme furono applicate con cieca rigidità; i presunti untori, furono torturati e giustiziati alla Colonna Infame, ma nel contempo affollate e ripetute processioni indette dal Cardinale – contro il parere di molti medici – esacerbarono il contagio.
In quella stessa epidemia, a Firenze i provvedimenti di sanità furono oggetto di controllo, non applicando tuttavia pene quando si riconosceva che l’infrazione era motivata da reali necessità di lavoro e di assistenza. I presunti untori furono solo due, poi scagionati e anche risarciti per l’ingiusta detenzione. Le Confraternite svolsero un ruolo prezioso e quando l’Arcivescovo decise di indire una processione, con l’immagine della Madonna dell’Impruneta, lo fece con l’autorizzazione dell’Ufficio di Sanità, concordando che il pubblico avrebbe assistito al passaggio dell’immagine a 100 metri di distanza. Due approcci diversi con risultati diversi, espressione non solo di sistemi giuridici e di governo differenti, ma anche – si direbbe oggi – di una diversa robustezza della società civile e della sua partecipazione al governo cittadino. A Firenze l’epidemia fu molto più contenuta.
Il modo con cui l’Italia sta affrontando questa emergenza potrà forse affermarsi come un positivo modello di gestione democratica di una gravissima crisi sanitaria.
CERTO, È ANCORA presto per dirlo, molto dipende dagli esiti di questa vicenda, e forse questo giudizio potrà essere rivisto, rovesciato o magari rafforzato; ma intanto possiamo affermare che stiamo assistendo ad una strategia che cerca di conciliare l’uso di strumenti legali (norme e regole, dotate di possibili sanzioni) e l’appello alla responsabilità individuale e alla solidarietà sociale.
Difficilissimo equilibrio, in un paese come l’Italia, dove la dotazione di «spirito civico» scarseggia storicamente in molte parti del paese e, in altre, si è venuta pericolosamente depauperando.
Eppure, è l’unico possibile equilibrio che possiamo oggi ricercare: restare dentro i confini di uno stato di diritto (ricordiamo l’art. 16 della Costituzione), ma non illudersi, nemmeno per un momento, che si possa ottenere il rispetto delle regole (in una società dove la potenziale mobilità individuale raggiunge vette impensabili anche solo 50 anni fa), senza la compartecipazione attiva e consapevole dei destinatari di quelle regole. La mera «legalità» non regge se non vi è «legittimazione», ossia la convinta adesione. Una vicenda come quella che stiamo vivendo non può essere governata solo con una verticalizzazione del comando.
LA CAMPAGNA ossessiva di denuncia degli «irresponsabili» non rende giustizia alla compostezza della grandissima maggioranza degli italiani; ma ciò non toglie legittimità alle possibili sanzioni, in difesa della più radicale delle libertà: la libertà dai rischi della malattia e della morte. E soprattutto, ha poco senso preoccuparsi oggi del restringimento degli spazi di libertà privata, quando l’esercizio incontrollato di questa libertà – e questo è un dato certo – produce danni collettivi. Forse torna d’attualità un antico insegnamento del pensiero socialista: la libertà dell’individuo può vivere solo insieme alla libertà degli altri.