di Antonello d’Elia, presidente di Psichiatria Democratica
Chi avrebbe mai previsto che la pandemia da Covid, con tutto il suo carico di danni e dolori non ancora terminati, avrebbe innescato in Italia un dibattito sulla psicoterapia e sulla salute mentale? Eppure è quanto sta accadendo, e possiamo solo rallegrarcene. Poter parlare di come si possa soffrire anche a causa di eventi minacciosi e dolorosi e di come tale sofferenza possa essere trattata attraverso l’ascolto, l’apertura a possibili elaborazioni, il superamento dello smarrimento e dell’abbandono è una conquista sociale collettiva. Insomma, pur non sapendo bene in cosa consista la salute mentale si è diffusa la consapevolezza che la si può perdere o che, quanto meno, si può avvertire il bisogno che qualcuno se ne faccia carico.
Ad aprire il confronto, tuttavia, non è stata la preoccupazione precoce per quanto accadeva nelle RSA agli anziani e vecchi isolati o ammalati, né quella per gli operatori esposti quotidianamente al rischio di contagio, all’enorme carico lavorativo e alla morte degli ammalati, e neppure quella per le famiglie e per i giovani, confusi da mesi di isolamento, chiusura delle scuole, assenza di contatto con i coetanei. La proposta avanzata in parlamento per assicurare il benessere psichico degli italiani è stata quella dello stanziamento di un fondo per le cure psicologiche sotto forma di bonus da spendere presso professionisti privati, almeno per quel numero di sedute possibili dato l’inevitabile limite di spesa. Consulenze, consultazioni dunque, non certo percorsi di psicoterapia che, come si sa, richiede tempo e continuità oltre alla competenza del professionista, acquisita, come vuole la legge, attraverso un corso almeno quadriennale, e, da parte della persona che a lui/lei si rivolge una motivazione, una consapevole necessità di aiuto. Cosa ci sarebbe di male, sostengono alcuni, ad offrire l’opportunità di ricevere almeno per qualche tempo un trattamento psicologico, alternativo o complementare ad uno medico farmacologico, a chi non può accedervi per limiti economici o per scarsa confidenza con il proprio mondo interno? Niente viene da rispondere, ma andrebbero aggiunte alcune considerazioni che non sono marginali rispetto all’obbiettivo nonché alla strada intrapresa per raggiungerlo.
La prima è che i bonus sono misure di incentivazione al mercato per sostenere settori produttivi in difficoltà stimolando gli acquisti di beni e servizi. Viene da chiedersi pertanto quale sia il mercato da incentivare visto che si parla di sofferenze e disturbi psichici e che non si ritiene una risposta coerente l’incremento di vendita degli psicofarmaci?
La seconda è che la psicoterapia non dovrebbe essere trattata come un bene materiale di cui assicurarsi la disponibilità o rivendicare la necessità. Non tutte le cure psicologiche sono psicoterapia né questa cura tutto e tutti, anche se esistono tanti interventi professionali clinici in grado di migliorare la qualità della vita delle persone.
Aggiungiamo poi che nel nostro paese disponiamo di una rete di servizi territoriali: Consultori, Centri di Salute Mentale, Servizi di neuropsichiatria infantile e per l’età evolutiva, Servizi di psicologia scolastica etc. Per decenni essa ha prodotto salute, inclusione sociale, ascolto, esperienze di emancipazione. Ha permesso di curare anche non aspettando di essere chiamati a farlo, senza separare le persone dai loro luoghi di vita, senza delegare ai soli trattamenti farmacologici. Da quando tuttavia questa rete, universalistica, accessibile e gratuita, è stata impoverita, sguarnita di personale, non valorizzata nelle sue potenzialità e sempre più separata dai territori e dalle comunità che li abitano attraverso accorpamenti e chiusure le conseguenze negative si sono sommate sino a deflagrare. L’opzione di cura psichiatrica, ad esempio, si è ulteriormente spostata verso la prescrizione o somministrazione di farmaci e il prolungamento di ricoveri in luoghi separati dall’ambiente di vita e da quello di trattamento. Quindi, perché in questa emergenza pandemica non ripristinare in primo luogo quel che già avevamo, magari facendo tesoro dell’esperienza per migliorarne l’efficacia? Perché non assumere personale nel rispetto di quelle proporzioni che erano state fissate due decenni fa e mai rispettate, come se la salute mentale e il benessere psichico degli italiani fossero un corollario accessorio a quello fisico e non un patrimonio da preservare.
Non si tratta di rievocare l’argomento consunto di una legge psichiatrica mai realizzata fino in fondo nel suo dettato né di fantasticare un ripristino di condizioni che appartengono ad una stagione passata, a una versione diversamente sostenibile della spesa sanitaria, sempre più elevata. Piuttosto si chiede di mantenere la coerenza ai princìpi di un welfare che, sin qui, nessuno ha avuto il coraggio di smantellare apertamente ma che è stato piegato via via dalle autonomie regionali e dalla diffusione di una malintesa filosofia prestazionale, figlia del mercato. È quindi necessario ridare centralità a un servizio pubblico che, anche indirettamente, orienti gli interventi, li indirizzi verso la salute delle persone e delle comunità sfidate e messe a dura prova dalla pandemia, spesso in difficoltà ben prima di questa ma che con questa e i suoi effetti si sono dovute cimentare.
Proviamo ad immaginare che, al posto del bonus spendibile per qualche seduta presso uno studio di cure psicologiche dove opera un professionista sulle cui competenze non possiamo che fidarci sulla parola, il governo varasse un grande piano per la salute mentale degli italiani che comprendesse:
a) il rilancio della rete pubblica di servizi di salute mentale, di neuropsichiatria infantile, dei consultori per la selezione e il trattamento di situazioni di rilevanza clinica;
b) il coinvolgimento di psicologi clinici, anche non ancora specializzati in psicoterapia, presso le istituende case di comunità pensate come una prima porta di accesso ai servizi sanitari il cui mandato è ascoltare la domanda proveniente dai cittadini, interpretarla, intercettarne i bisogni e su scala locale offrire risposte dirette o indirette, inviando presso i servizi specialistici, attivando interventi di psicologia di comunità nelle istituzioni, ad esempio nelle residenze sanitarie assistite;
c) il rilancio della psicologia scolastica in cui altri psicologi clinici formati possano ascoltare e sostenere non solo i giovani alunni ma anche i loro insegnanti, spesso in difficoltà;
d) l’invio su richiesta e indicazione dei servizi pubblici di persone, famiglie, gruppi a psicoterapeuti appartenenti a scuole di psicoterapia, specializzati o specializzandi opportunamente supervisionati, o a cooperative e associazioni del terzo settore che operano nel campo della psicoterapia socialmente accessibile;
e) l’impiego di psicologi formati negli ospedali per supportare pazienti, familiari e operatori, sottoposti a stimoli emotivi insostenibili se non a prezzo di disagi, reazioni emotive e comportamentali incontrollabili, insomma di livelli di sofferenza eccessivi che se elaborati potrebbero essere superati e fare anzi da lezione per il futuro.
Si avvierebbero a quel punto percorsi psicoterapici veri e propri, laddove necessari e motivati, e non consulenze a termine con il possibile ‘ricatto’ dell’interruzione o della prosecuzione privatistica a scadenza del bonus. Uno scenario del genere potrebbe avere una prima fase di avvio in emergenza, sotto la spinta dei bisogni e delle richieste della pubblica opinione (stimolate peraltro proprio dal dibattito sul bonus a cui contribuisce anche questo breve scritto…) per poi assicurare interventi strutturali e strutturati che vadano in una direzione coerente con le finalità prima esposte.
In questo modo si aprirebbero grandi opportunità di lavoro per i tanti laureati in psicologia, si preserverebbe la qualità e serietà del lavoro psicoterapico affidato a persone specializzate, si aprirebbero le porte da troppo tempo sprangate della rete di servizi pubblici territoriali. Una risposta governata a bisogni, diffusi quanto spesso informi, che vanno decodificati prima di ricevere risposte troppo meccaniche e tecnicistiche. Un grande progetto di accessibilità diffusa all’ascolto e alla sospensione dei comportamenti irriflessi; un piano di democratizzazione delle cure psicologiche e, in ultimo, la prospettiva che bambini, adolescenti e adulti un poco più consapevoli di sé e delle relazioni che intrattengono con l’altro, con gli altri, diventino migliori cittadini. Infine un investimento oculato e non un possibile sperpero episodico di denaro e l’avvio di una selvaggia liberalizzazione del mercato dei curatori d’anime. Mi accorgo, in chiusura, che l’uso del condizionale rende quanto affermato sin troppo aleatorio, una lista di desideri e non un modello a cui rivolgersi. La politica, tuttavia, ha la possibilità di rendere concreto quanto necessario ed auspicato, di modificare le condizioni e declinare al presente quanto potrebbe appartenere a un lontano, irraggiungibile futuro, e ad essa è dunque legittimo guardare con fiducia.