di Nerina Dirindin
Credevamo (sbagliando) di poter ritornare alla normalità. O almeno a una condizione di ordinata coesistenza con il virus. Invece siamo ripiombati nell’emergenza. Questa volta è tutto più difficile, perché il vantaggio conseguito sul fronte della conoscenza del Coronavirus non è sufficiente a compensare l’affievolirsi dello slancio generoso dimostrato in primavera da tutta la popolazione (in particolare dalla gran parte dei professionisti della sanità pubblica): le energie recuperate stanno venendo meno, la fiducia nelle istituzioni è meno granitica, l’impreparazione di molti distretti sanitari è sconcertante, la dimensione delle classi scolastiche (cd pollaio) non è cambiata, i trasporti locali sono più deboli di prima, le persone fragili sono impaurite.
In poco tempo rischiamo di dilapidare il patrimonio di fiducia nella scienza, nelle istituzioni, nella sanità pubblica che si era consolidato durante la prima ondata e che ci aveva (erroneamente) fatto credere di essere bravissimi. Le nostre debolezze sono invece ancora tutte lì e l’unica strada che possiamo cercare di percorrere è quella di impegnarci seriamente a “immaginare un altro mondo”, verso il quale procedere senza egoismi e inutili distinguo, con un paziente lavoro di trasformazione di ognuno di noi e della società.
Arundhati Roy ha scritto sul Financial Times il 3 aprile scorso “Storicamente le pandemie hanno forzato gli uomini a rompere con il passato e a immaginare un nuovo mondo. Questa volta non è diversa. È un portale, un passaggio da un mondo a quello successivo. Possiamo scegliere di attraversarlo, trascinandoci dietro le carcasse del nostro pregiudizio e dell’odio, … delle nostre idee morte, dei nostri fiumi morti e dei cieli fumosi. Oppure possiamo camminare leggeri, con poco bagaglio, pronti a immaginare un altro mondo. E pronti a combattere per questo”.
Se dovessimo provare a immaginare una sanità rinnovata, su quali cambiamenti potremmo puntare?
La risposta è semplice, anche se siamo consapevoli che la sua realizzazione non sarà facile.
È illustrata in dettaglio nell’appello lanciato nei mesi scorsi, “Finanziamenti europei: spendere bene. Priorità all’assistenza sociale e sanitaria sul territorio”, da alcune associazioni della società civile, appello sottoscritto da CGIL, CISL e UIL oltre che da decine di enti e organizzazioni.
Il documento indica alcune importanti priorità, che qui riprendiamo per sommi capi: finalizzare i finanziamenti a progetti strategici (evitando distribuzioni a pioggia e puntando al superamento dei divari territoriali), potenziare l’assistenza distrettuale (troppo a lungo trascurata), investire su una forte integrazione fra sanità e sociale (mai seriamente affrontata), privilegiare i servizi di prossimità (vicini ai luoghi in cui vivono le persone), promuovere l’adozione dei piani personalizzati quale pratica ordinaria di presa in carico (superando la logica prestazionale e la frammentazione degli interventi), migliorare la qualità e la sicurezza dei luoghi di cura (per gli operatori e per i pazienti), ripensare profondamente la formazione degli attuali e dei futuri professionisti (per superare una diffusa carenza di competenze su temi quali sanità pubblica, lavoro in rete, ruolo delle comunità), adeguare il personale alle reali esigenze della popolazione (abbandonando le politiche dei vincoli alle assunzioni che nell’ultimo decennio hanno mortificato il welfare), sviluppare forme di residenzialità protetta alternative alla istituzionalizzazione (riconvertendo le strutture residenziali di grandi dimensioni e non inserite nella comunità), realizzare progetti per le persone con disabilità (a partire dalla mobilità e dall’adeguamento delle abitazioni), superare i divari nell’assistenza ospedaliera (e garantire continuità fra ospedale e territorio); investire sull’assistenza assicurata alle persone con disturbi mentali, dipendenti, ospiti nelle strutture penitenziarie, migranti (su cui si misura il grado di civiltà del nostro sistema), pensare e realizzare politiche per la salute e il benessere delle giovani generazioni (bambini, adolescenti, giovani adulti e le loro famiglie, dai quali dipende il nostro futuro e ai quali storicamente il welfare ha dedicato meno attenzione).
Si tratta di linee di intervento che affrontano le tante debolezze che il Coronavirus ha messo in evidenza in questi mesi, che alcuni di noi hanno più volte denunciato in passato ma che sono rimaste inascoltate dai governi dell’ultimo decennio. Ora è il tempo di liberarsi delle idee “mercatistiche” che hanno prevalso per troppi anni e di combattere per un welfare rinnovato.