di Paolo Rappuoli
Su input del ministro della salute Speranza, il governo ha inserito nella legge di bilancio tra gli obiettivi a breve e medio termine due miliardi in più nel Fondo sanitario per il 2020, l’abolizione del superticket e il riordino della compartecipazione alla spesa sanitaria basato sulla progressività dei redditi (“chi ha di più deve pagare di più”, ha sintetizzato).
Davvero si tratta di ricette che aiutano il Ssn?
La prima misura, fuor di dubbio, sì. Si dirà che è poca cosa (1,7%) rispetto ai circa 115 miliardi del costo totale, ma è pur sempre un’inversione di tendenza che ci avvicina, seppur faticosamente, ai livelli europei. Spendiamo circa il 60% in meno della Germania, il 50% in meno della Francia e il 20% in meno del Regno Unito. Spendiamo in sanità solo il 6% circa del nostro PIL. Ed è però opportuno che su quella “poca cosa” sia anche tenuta alta la guardia. Per esempio, nella bozza di Patto per la salute inviata dal Ministero alle Regioni lo scorso maggio è stata mantenuta la clausola, già presente nel precedente Patto, che evidenzia come le risorse definite nell’ultima manovra (2 miliardi in più per il 2020 e 1,5 per il 2021) sono confermate “salvo eventuali modifiche che si rendessero necessarie in relazione al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e variazioni del quadro macroeconomico”. Significa che finora gli incrementi del Fondo erano scritti sulla sabbia perché il vincolo delle compatibilità di finanza pubblica li faceva diventare aleatori e inoltre la discrezionalità per le regioni di poter negoziare con lo stato le modalità per la riduzione delle spese regionali usando anche i fondi sanitari (che dovrebbero invece essere vincolati), di fatto hanno ossificato il Fondo sanitario, con grave nocumento per l’intero Ssn che invece necessitava almeno di evitare i tagli. Ecco, su questo il ministro ha fatto bene ad intervenire, sia per sollecitare un incremento del finanziamento che per svincolarlo dalla situazione contingente.
Per gli altri due obiettivi, il ragionamento si fa più complesso.
I ticket sono troppo spesso spiegati come le compartecipazioni dei cittadini alla spesa sanitaria. In realtà sarebbero (sono) innanzi tutto strumenti di controllo della domanda, utili per limitare l’inappropriatezza, ossia il ricorso a prestazioni sanitarie non necessarie.
In Italia il ticket è gestito a livello regionale. Questa peculiarità del nostro sistema sanitario, combinata con le crescenti pressioni sulla spesa pubblica, ha fatto sì che negli ultimi anni il ticket si sia trasformato in uno strumento di finanziamento della spesa (non è un caso che le regioni con piani di rientro finanziario abbiano compartecipazioni più elevate). In particolare, fu la legge 405/2001 (governo Berlusconi/Tremonti/Sirchia) ad affermare esplicitamente che le regioni coprono eventuali deficit di gestione con le entrate sanitarie, incluso il ticket. Un paradosso, se guardato alla luce della vera definizione di ticket, che ha provocato disuguaglianza territoriale. Sono differenze che non dovrebbero manifestarsi in un Paese nel quale il diritto alla salute e a livelli essenziali di assistenza è garantito su tutto il territorio dalla Costituzione.
Il “prezzo” per accedere alle strutture sanitarie pubbliche per i servizi specialistici, il superticket, vede la luce in Italia (sorprendentemente) dal 1° gennaio 2007 (Prodi II), ma fu anche la stessa maggioranza dell’epoca a non renderlo applicabile, con due provvedimenti successivi, fino alla fine del 2011, forse cercando di riparare ad un grave errore politico. È stata poi una legge del luglio 2011 (Berlusconi IV) a introdurlo davvero per “favorire gli equilibri di bilancio delle regioni”. I rischi correlati sono tali da non poter essere sottovalutati: dalla fuoriuscita di servizi dal Ssn, ad una diminuzione delle entrate ad esso destinate. Infatti, il superticket può far aumentare il costo di alcune prestazioni oltre il loro valore, creando effetti distorsivi sulle scelte dei consumatori che possono addirittura preferire pagare il prezzo pieno nel settore privato, perché più conveniente.
È quindi pacifico che quando il superticket sarà abolito, sarà sempre troppo tardi.
Il terzo proposito del ministro potrebbe racchiudere un paradosso, pur partendo da un’affermazione condivisibile.
Esiste una regione, la Toscana (fra l’altro, Speranza è lì che è stato eletto deputato), dove il ticket si paga, escluse le esenzioni, oramai da anni per fasce di reddito. Davvero questa pratica ha garantito il Ssn?
Dal resoconto regionale 2019 curato dall’Osservatorio sociale regionale, dall’Agenzia regionale di sanità, dal Laboratorio MeS della Scuola Superiore Sant’Anna e dall’Anci Toscana, Welfare e salute in Toscana, risulta che le risorse finanziarie raccolte da “ticket e copayment” in Toscana nel 2018, a fronte dei 748 milioni di euro di spesa lorda, ammontano ad oltre 106 milioni di euro, più del 14%. Ecco il dettaglio:
Nelle tabelle sono descritti gli importi dei ticket versati per i cinque principali settori di attività specialistica: l’attività clinica (visite mediche specialistiche), la diagnostica per immagini (ecografie, scintigrafia, RM, PET, medicina nucleare), la diagnostica di laboratorio (esami sangue, esami urine), la diagnostica strumentale (endoscopie, ecodoppler, ecocardiografia, EEG, EMG, fluorangiografie) e le procedure (biopsie, chirurgia ambulatoriale, PMA). La diagnostica di laboratorio è l’unica specialistica che tra il 2017 e il 2018 ha registrato un incremento, una piccola inversione di tendenza, o meglio, nel confronto con il 2014, ha contenuto il decremento. Nel raffronto tra 2018 e 2014 spiccano il meno 18,8% della diagnostica per immagini e soprattutto il meno 43% delle procedure. Complessivamente il saldo 2014-2018 registra un meno 11,10% (oltre 14 milioni di euro). Sicuramente questo saldo beneficerà di un miglioramento in termini di appropriatezza (in accordo con lo scopo principe delle compartecipazioni), ma in assenza di un dato certo sulla sanità privata forse occorrerebbe indagare meglio. Detto in modo tranchant: occorre verificare che il sistema del ticket “progressivo” non finisca per mettere in difficoltà la sanità pubblica.
Infatti a parità di qualità e, nella migliore delle ipotesi, di costo della prestazione, perché chi se lo può permettere dovrebbe scegliere il servizio pubblico? Chi ha maggiore capacità di pagare ricorre alle assicurazioni, al servizio privato, anche solo perché meno congestionato; solo le classi meno facoltose si rivolgono al servizio pubblico. Magari involontariamente, ma potrebbe anche apparire come un incentivo alla sanità privata. In pratica un ritorno alla sanità per censo e forse per corporazione. Già succede in parte. Se chi se lo può permettere ricorre ad un sistema parallelo, il Ssn rischia di divenire il servizio di chi non può permettersi un’assicurazione. Una sanità di serie A ed una di serie B.
Non solo: alla sanità pubblica e al concetto solidaristico –tutto politico- che vi è sottinteso mancherebbe un apporto finanziario notevole. Peraltro, non è il solo concetto di solidarietà che governa la sanità pubblica, ma anche la giustizia del contribuire al benessere di tutti fin da quando si è sani e non per costrizione nel momento del bisogno. I sistemi pubblici sono chiamati a “produrre salute”, quelli privati hanno, legittimamente, interesse a “produrre cose” -farmaci, analisi, accertamenti, ricoveri- hanno insomma l’interesse a tenere la domanda alta. Ma la salute non può essere un bene sottoposto alle regole di mercato.
Comprendo bene che in tempi di annunci, suona bene dire “chi più ha, più paghi”, e magari posso anche essere d’accordo.
Esiste però una sola strategia per farlo preservando l’equità: il ricorso alla fiscalità generale e quindi alla progressività, a monte, della tassazione del reddito percepito e implementare il Fondo sanitario nazionale. Giova ricordare che il modello italiano di sanità pubblica ha le sue radici nel Beveridge Report del 1942 che elencava come uno dei cardini principali proprio il finanziamento del sistema attraverso la fiscalità generale: ognuno contribuisce secondo le possibilità e riceve prestazioni secondo il bisogno (questa locuzione mi pare la più appropriata). Eppoi ripristinare uno schema di compartecipazione con il ticket che torna al suo ruolo originario, cioè quello di ridurre il consumo di prestazioni non necessarie. In quest’ottica, per esempio, si potrebbe cominciare col separare le entrate del ticket dal finanziamento delle spese sanitarie.
La medicina è anche una scienza sociale e perciò ha tanto a che fare con la politica e con le scelte che la politica compie, o meglio i cambiamenti nella sanità sono atti politici veri e propri.