A metà luglio 2019, due sentenze del Consiglio di Stato hanno chiuso un lungo contenzioso, di rilevanza internazionale, sul caso Avastin – Lucentis.
Si tratta di due farmaci (rispettivamente delle aziende Roche e Novartis) ritenuti dalla comunità scientifica internazionale equivalenti per la cura della maculopatia retinica, una malattia diffusa fra gli anziani che porta progressivamente alla cecità, i cui prezzi sono enormemente diversi. Oltre dieci anni fa le due case farmaceutiche si erano accordate per richiedere l’immissione in commercio solo del farmaco più caro (Lucentis) e per ostacolare il farmaco più economico (Avastin) presentandolo artificiosamente come meno sicuro. L’accordo è stato pesantemente sanzionato nel 2014 dall’Antitrust con una multa di 180 milioni di euro.
Una lunga vicenda che ha visto in campo le regioni, i professionisti e i rappresentanti dei consumatori per rivendicare il diritto di utilizzare, in presenza di buone evidenze scientifiche, il farmaco meno caro anche quando l’industria non ne richiede l’immissione in commercio (per la specifica patologia) per mere ragioni di profitto. Un caso complesso che dopo dieci anni di delibere, ricorsi e sentenze (fino alla Corte Costituzionale e alla Corte di giustizia europea) non potrà che segnare il futuro delle politiche del farmaco.
Le sentenze hanno sottolineato la necessità di salvaguardare “l’interesse pubblico al risparmio di spesa”, ovviamente in presenza di valide alternative terapeutiche supportate da buone evidenze scientifiche. Hanno precisato che l’interesse commerciale di un’industria farmaceutica a non immettere in commercio un dato prodotto non può limitare il potere-dovere dei professionisti di utilizzarlo per la cura dei propri pazienti quando riconosciuto efficace.
Significativa la sentenza della Corte Costituzionale del 2014: un’alternativa terapeutica per essere considerata “valida” deve anche “essere economicamente percorribile”, perché condizioni economicamente non accettabili sono discriminatorie e limitano l’accesso alle cure. Una forte critica al comportamento dell’industria farmaceutica, interessata a sviluppare prodotti in una logica per lo più di profitto piuttosto che di salute pubblica.
Ora, a contenzioso chiuso, è auspicabile che la vicenda possa indurre l’industria farmaceutica a una seria riflessione sul proprio operato, in primo luogo a tutela della propria reputazione, ma anche come contributo al contrasto della insidiosa e crescente sfiducia della popolazione nei confronti della medicina e dei medicinali. L’industria ha il merito di scoprire e rendere disponibili farmaci importanti, ma va criticata e limitata quando porta in commercio prodotti pseudo-innovativi fatti pagare a carissimo prezzo.
È altresì auspicabile che il servizio sanitario faccia tesoro di questa esperienza: le più alte istituzioni hanno sottolineato la necessità di mettere al primo posto (anche quando sono in gioco ingenti profitti) l’interesse dei pazienti. Un caso che fa scuola per molti: per le agenzie regolatorie (Aifa), che dovrebbero avere più coraggio ed essere proattivi in analoghe situazioni; per i prescrittori, che dovrebbero rifarsi alle evidenze scientifiche nell’interesse esclusivo dei pazienti; e per i pazienti stessi, che come cittadini responsabili possono limitare la forza di un mercato troppo orientato al profitto.
Il sistema pubblico dunque, più che attivarsi – ora – a richiedere i danni, dovrebbe andare alla ricerca dei tanti casi di risparmio sui quali si è ancora troppo inerti, e non solo nel farmaco.